O Africă imaginară şi puţin Dada

Poulenc a fost unul dintre cei mai importanţi compozitori francezi în secolul XX-lea. Homosexual, personalitate ironică şi prietenoasă, el a scris muzică într-un stil elegant şi accesibil în epoca modernismului.

Exordiul tănârului Poulenc a avut loc în anul 1917 cu Rapsodie Nègre. Ideea piesei s-a născut în mod cazual: compozitorul se plimba printr-un târg de cărţi lângă Sena la Paris şi o carte a atras atenţia sa: era un volum de poezii al unui scriitor african, Makoko Kangourou. Într-adevăr culegerea de poezii este un fals: versurile sunt fără sens şi sunt scrise într-o limbă inventată. În anii ’10 cultura africană era în centrul intereselor artiştilor parizieni.

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Poulenc alege poezie cu titlul Honoloulou, un cuvânt care, binenţeles, n-are nicio legătură cu Africa şi cultura africană.

Honoloulou, poti lama!
Honoloulou, Honoloulou,
Kati moko, mosi bolou
Ratakou sira, polama!

Wata Kovsi mo ta ma sou
Etcha pango, Etche panga
tota nou nou, nou nou ranga
lo lo lulu ma ta ma sou.

Pata ta bo banana lou
mandes Golas Glebes ikrous
Banana lou ito kous kous
pota la ma Honoloulou.

Partea vocală a Rapsodiei, pentru bariton, este interpusă într-o serie de piese instrumentale foarte scurte pentru o mică orchestră de cameră; în partea finală a piesei cântăreţului îi e destinată o nouă, scurtă melopee. Stilul e foarte atractiv şi surprinzător în crearea unui folclor “inventat în întregime” (acestea sunt cuvinte ale lui Ravel). Sonoritatea este una exotică, dar este veselă, grotescă, ironică, fermecătoare, ritmică: nimic în comun cu exotismul romantic.

Succesul Rapsodiei a fost mare. Stravinskij a făcut mare efortuire pentru publicarea piesei şi Sergej Djaghilev a vrut ca Poulenc să compună un balet.

Acest exordiu norocos i-a creat şi câteva probleme autorului: la prima execuţie baritonul a refuzat să cănte “ceva atât de idiot” şi Poulenc a trebuit să cănte el în locul cântăreţului. Rapsodia a fost şi un mare obstacol pentru intrarea sa la Conservatorul din Paris cu următoarele, elegante cuvinte: «Piesa dumneavoastra e bolnavă, fără sens, şi “une couillonnerie infâme”. Mă faceţi de batjocură, cvinte oriunde; şi ce pulă mea este Honoloulou ăsta? Da, da, evident, dvs sunteţi prieten cu proştii ăia, Stravinskij, Satie şi alţii, foarte bine, bună seara!».

L’Africa un po’ dada del giovane Poulenc

Poulenc è stato uno dei più importanti compositori francesi del Novecento. Omosessuale dichiarato, personalità brillante e ironica, ha scritto una musica di un modernismo mai esasperato, il più delle volte ancorata a un gusto innato per l’eleganza, la piacevolezza e il gioco.

Gli esordi del giovane Poulenc come compositore risalgono al 1917 con la Rapsodie Nègre. Passeggiando per le bancherelle di libri lungo la Senna il giovanissimo compositore aveva un libro dal titolo piuttosto invitante: Les Poésies de Makoko Kangourou, una raccolta di versi di un presunto autore africano. In realtà si trattava di una serie di poesie in una lingua senza senso (che desidererei tanto avere ma che non ho trovato) che richiamava la cultura africana, allora di moda negli ambienti dell’avanguardia europea.

Poulenc usa una poesia dal titolo Honoloulou, parola che di africano oggettivamente ha ben poco.

Honoloulou, poti lama!
Honoloulou, Honoloulou,
Kati moko, mosi bolou
Ratakou sira, polama!

Wata Kovsi mo ta ma sou
Etcha pango, Etche panga
 tota nou nou, nou nou ranga
lo lo lulu ma ta ma sou.  

Pata ta bo banana lou
mandes Golas Glebes ikrous
Banana lou ito kous kous
pota la ma Honoloulou.

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La parte vocale, per baritono, è inserita in mezzo a una serie di brevissimi pezzi strumentali per orchestrina da camera; alla fine del pezzo il baritono riprende la sua melopea. Lo stile è accattivante e colorato, sorprendente nella creazione di un folclore in realtà “totalmente inventato” (parola di Ravel). Le sonorità richiamano la musica esotica, ma sono brillanti, grottesche, spiritose, estroverse: nulla di romantico ma uno stile al cesello che sorprende per la sua varietà.

Il successo della Rapsodie Nègre è stato grande. Stravinskij si è prodigato per la sua pubblicazione e Sergej Djaghilev ha subito commissionato a Poulenc un balletto. Questo esordio fortunato qualche problema all’autore lo ha creato: il baritono alla prima rappresentazione si rifiutò di cantare “una cosa così stupida” e Poulenc ha dovuto eseguire egli stesso il suo brano alla prima esecuzione. Come se non bastasse la rapsodie è costata l’ingresso di Poulenc al Conservatorio di Parigi con le seguenti, elegantissime parole: «Il suo lavoro è malato, fuori luogo, è un’infame coglionata. Mi prende per il culo, quinte dappertutto; e cosa cazzo è questo Honoloulou? Ah sì, lo vedo bene, Lei se ne va con la banda di Stravinskij, Satie etc, bene bene, buona sera!».

Il ragazzo fragile e romantico che cambiò la musica

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Un’aura di leggenda ha sempre circondato la figura di Pergolesi, compositore marchigiano ma trapiantato a Napoli e il cui nome a questa città si è legato. Pergolesi visse pochissimo, appena ventisei anni, la maggior parte dei quali tra Napoli e Roma e compose solo per sei anni; ma le sue opere furono destinate a creare la leggenda del compositore fanciullo, dotato di un’ispirazione straordinaria ma destinato a morire giovane. Come per molti il mio primo contatto, ancora bambino, con pergolesi fu con l’operina comica La Serva Padrona: cinquanta minuti di musica perfetta che descrivono le manovre di seduzione di una servetta nei confronti del suo anziano padrone. Apparentemente nulla di eccezionale se non fosse che su questa operina, nata a Napoli nel 1733, gli Illuministi francesi, Diderot e gli altri, ci hanno fatto una battaglia sostenendo che la musica comica italiana era più naturale dell’artificiosa tradizione tragica di Francia.

La naturalezza e la grazia melodica, la plasticità delle armonie, semplici ed efficaci, la nota sentimentale, l’uso della voce che descrive con delicatezza o ironia i moti dell’animo rendeva la musica di Pergolesi qualcosa di nuovo: ancora oggi, rispetto alla rigidezza barocca, la sua musica ci sembra più calda e diretta, a volte addirittura influenzata dal canto popolare, a volte veramente partecipe verso le vicissitudini dei suoi personaggi.

Questa nuova umanità venne trapiantata dall’opera comica alla tragedia ma, soprattutto, all’austera e solenne musica sacra. Lo Stabat Mater, la descrizione della Vergine ai piedi della Croce, era un (bellissimo) testo mediolatino messo in musica dai compositori per il Venerdì Santo. Pergolesi, ormai malato terminale, nella quiete di un paradiso mediterraneo come Pozzuoli, scrisse quest’ultima fatica pochi giorni prima di morire. La musica, dolce e empatica, che egli seppe inventare, disarmante nella sua semplicità, essenziale nelle sue linee come la natura che egli aveva intorno, fece toccare con mano, forse per la prima volta, l’aspetto umano, quasi “teatrale” dei sentimenti dei personaggi sacri. I due cantanti che commentano gli atti della Vergine si esprimono come due personaggi di un dramma metastasiano o, ancor di più, come nelle scene sentimentali di una commedia ambientata nelle strade di Napoli, brulicante di umanità, fuori da ogni finzione o misticismo, come Pergolesi stesso la descrisse nelle sue opere comiche.

Delle varie edizioni dello Stabat propongo l’ascolto di questa in particolare, molto ricercata stilisticamente.

L’anima multietnica della Vienna di Mozart e Beethoven

Nell’articolo dedicato al compositore finno-svedese Crusell, di cui continuo a consigliare un ascolto, ho dato un primo esempio di come la cultura musicale europea agli inizi del XIX secolo fosse essenzialmente cosmopolita.

Uno dei simboli di questo mescolamento di identità diverse era la capitale dell’Impero asburgico, Vienna, la Vienna di Mozart, dove musica italiana e musica tedesca si incontravano e si influenzavano reciprocamente. Per ovvi motivi la lingua della comunicazione musicale era l’italiano e molti nostri connazionali passavano per la capitale dell’Impero: Paisiello, Cimarosa, Salieri; accanto agli italiani troviamo artisti sommi, che tutti conosciamo, come Haydn, Mozart stesso, in seguito Beethoven e Schubert, ma anche meno noti come Hummel, Elbert, Spohr, etc.

Tra i vari giovani compositori provenienti dagli angoli più sperduti della Mitteleuropa incontriamo anche un tal Antonio Casimir Cartellieri, figlio di un cantante d’opera italiano e di una cantante lettone, e nato a Danzica (oggi in Polonia ma allora città cosmopolita). Arrivò a Vienna a perfezionarsi con Salieri e sembra fosse grande amico di Beethoven, che esordì nella città austriaca proprio all’interno di un concerto con musiche di Cartellieri; sicuramente fu proprio il giovane musicista di Danzica a dirigere per la prima volta la sinfonia Eroica.

E la sua musica? Inaspettatamente originale per essere quella di un compositore praticamente dimenticato: la sua sinfonia in Do minore ha un’inquietudine ma, allo stesso tempo, una compostezza classica tutte mozartiane; rimane sicuramente impressa nell’ascoltatore, provare per credere!!

Quello che stupisce di Cartellieri è l’energia dirompente e la capacità di sperimentazione: ad esempio, il concerto per due clarinetti inizia con un robusto colpo di timpani, cosa inaudita per l’epoca, e continua con melodie ora popolareggianti, ora momenti ricchi di pathos molto vicini alla musica di Beethoven.

Ecco alcuni link al concerto per due clarinetti (https://www.youtube.com/watch?v=Cg7ZSwS09Po) e alla sua splendida sinfonia in do minore (https://www.youtube.com/watch?v=iIE-zt7PWzw).

L’ultima nevicata dell’inverno, tra sogno e realtà…

Una mia traduzione dal romeno di una poesia di Traian Coşovei, un poeta appartenente al postmodernismo e caratterizzato da uno stile fortemente ironico, corrosivo e surreale. Uno di quei poeti che hanno scoperto nella Romania degli anni Ottanta la lingua di tutti i giorni adoperando uno stile quotidiano e dimesso per raccontare il proprio disagio verso un mondo sentito come inautentico e ostile.

Fantasmi

Nevica un’ultima volta quest’anno –
un freddo sanguigno taglia i nasi dei signori bianchi di neve
e ogni fiocco è un angelo caduto che deflagra sui tetti.

È un senso di colpa che pesa. Un’immobilità gelida che nasce da ombre e sogni.
Ora potrei anche mettermi a piangermi addosso –sconosciuto,
come una camionetta di cani vagabondi potrei sparire con la mia lira velenosa e cattiva.
Potrei, se lo volessi, mettere occhiali oscurati da cieco alle sofferenze…
e brancolare sperduto tra cose ed essenze.

Ché verrà un raggio di sole e scioglierà pian piano le maniglie delle porte.
Darà un segnale ai vagabondi, agli erranti, a chi è partito.
E la mattina si spalancherà una cavità / come una calzoleria oscura
sì – proprio in mezzo alla strada
e un apprendista rosa muoverà la lingua verso di te per assaporare se esisti, per vederti.

Verrà
Sarà un amico dell’uomo, un lettore ipocrita, un fratello
che busserà alla finestra tra sogno e realtà.

Ma quest’anno nevica un’ultima volta / e tu
e tu forse non hai nemmeno raggiunto l’età di una fiamma fredda di fiammifero.
Con mani di cera sottili accendi una luce solitaria e pesante.
Sopra, il tempo crolla come la pelle di un animale scuoiato
sul silenzio compatto, arrotondato…
E un gatto saggio, alzando un orecchio tra bicchieri e tazzine da caffè,
mi ha detto con voce mielosa:
“Abituatici e null’altro –
mangia il tuo cibo, metti in movimento le tue viscere, fa passare l’acqua e se
sei stracco, stenditi per terra.
L’ignorante riderà di te, il saggio capirà…”

In qualche modo questa è la storia e ora potrei davvero mettermi a guaire.
Enumerare gli anni trascorsi – maledetti secondi!
Ma quest’anno nevica un’ultima volta e ogni fiocco
è un’immensa stazione da dove partono grandi pezzi di tempo
per un qualche luogo, per un qualche tempo.

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Fantasme

Ninge pentru ultima oară anul acesta –
un frig sângeros taie nasurile boierilor albi ai zăpezii
şi fiecare fulg e-un înger căzător bubuind pe-acoperişuri.

E-un păcat ce apasă. O lene geroasă născătoare de umbre şi visuri.
Acum aş putea să mă văicăresc – neştiut de nimeni,
ca o dubă de câini vagabonzi aş putea să dispar cu mira mea veninoasă şi rea. Aş putea, dacă-aş vrea, să-mi pun ochelarii fumurii de orb la suferinţă…
Şi să orbecăi pierdut între lucruri şi fiinţă.

Căci va veni o rază de soare şi va topi încet mânerele uşilor.
Va arăta un semn pribegilor, rătăciţilor, duşilor.

Iar dimineaţa va deschide o gură / ca o cizmărie obscură aşa – în plină stradă
şi-o calfă trandafirie va scoate limba la tine să te guste de exişti, să te vadă.

Va veni.
Va fi un prieten al omului, un cititor ipocrit, un frate
zgâţâind la ferestra dintre vise şi realitate

dar anul acesta ninge pentru ultima oară / şi tu
n-ai împlinit măcar vârsta unei flăcări reci de chibrit.
Cu mâini de ceară subţiri, aprind o lumină pustie şi grea.
Deasupra, timpul se prăbuşeşte ca pielea de un animal jupuit
peste tăcerea deasă, pântecoasă…
şi-o pisică înţeleaptă ridicând o ureche dintre pahare şi ceşti de cafea
mi-a spus cu vocea mieroasă:
“Fii obşnuit şi nimic altceva –
mănâncă-ţi mâncarea, mişcă-ţi măruntaiele, treci apa şi dacă
eşti ostenit întinde-te la pământ.
Ignorantul te va râde, dar înţeleptul va înţelege…”

Cam asta-i povestea şi aş putea să mă văicăresc.
Să număr de-acum anii ce s-au dus – împieliţate secunde.
Dar anul acesta ninge pentru ultima oară
şi fiecare fulg
e-o gară imensă din care pleacă mari bucăţi de timp spre oricând, spre oriunde.

© Federico Donatiello

Ali Babà, Mozart e il clarinettista del mar Baltico

Il clarinettista Bernard Crusell era orgogliosamente finlandese ma visse per la maggior parte della sua vita a Stoccolma. Il suo amore per la Finlandia rimase grande e continuò a usare il finnico come lingua di conversazione e nei diari. Ma all’epoca la lingua della cultura era lo svedese (ancora oggi in Finlandia è obbligatorio a scuola) e collaborò alla fondazione di un teatro musicale a Stoccolma.

Crusell era prima di tutto un grande clarinettista, forse uno dei migliori dell’epoca, e buona parte della sua produzione musicale è dedicata a questo strumento: dei suoi tre concerti il secondo è il più romantico e originale, drammatico e ricco di melodie. Una vera scoperta!  Può apparire strano ma questo autore nordico è un grande ed estroverso melodista, che ha sicuramente studiato autori italiani come Rossini oltre che le opere di Mozart.

Pur essendo un nazionalista, Crusell era un uomo dalla cultura cosmopolita e aveva viaggiato molto: nel 1803 gli era stato offerto il posto di clarinettista all’Opera italiana di Parigi. Ma la sua fortuna definitiva si legò a Stoccolma, dove tradusse in svedese i libretti d’opera italiani (tanto che il mondo letterario della capitale svedese lo accettò nelle sue accademie per la sua traduzione delle Nozze di Figaro). Nel 1824, infine, dopo un lungo apprendistato sul campo, si decise a comporre un’opera in svedese, Den lilla slafvinnan (La giovane schiava), che ebbe un successo travolgente. Il soggetto si inserisce nell’ambito delle “turcherie” (di cui ho già avuto modo di parlare) in quanto la storia è quella di Ali Baba e dei quaranta ladroni. I debiti verso Mozart e Rossini sono evidenti e l’operina contiene bellissime pagine strumentali (soprattutto strumenti a fiato, una caratteristica tipicamente italiana) dallo stile semplice e piano. Con l’indipendenza della Finlandia l’opera venne finalmente tradotta anche in suomi: probabilmente Crusell non si sarebbe mai sognato di ascoltare la sua operina svedese cantata nella sua amatissima lingua madre.

I “Paesaggi del nulla” e la crisi greca

Dalla Grecia ci arrivano negli ultimi giorni venti e speranze nuove grazie alla vittoria di Alexis Tsipras ma, sempre dalla Grecia, proviene una raccolta poetica edita di recente (nel 2013) di un poeta importante come Antonis Fostieris. Il titolo è Topìa tou tìpota, Paesaggi del nulla, già tradotta in italiano da Crocetti e da cui ho scelto una poesia per una mia traduzione personale.
Non conosco il coinvolgimento di Antonis Fostieris nella realtà politica greca contemporanea ma questa poesia sicuramente descrive un sentimento di pesante nichilismo e sfiducia che è difficile non collegare alla situazione di grande smarrimento che in corso nel paese balcanico.
Non è stato semplice tradurre questa poesia dal linguaggio quotidiano e semplice. In particolare il gioco di parole tra to graptò (scritto, scrittura) e to graphtò (destinazione) ho rinunciato a renderlo in italiano: magari in futuro, tornando su questo brano, mi verrà in mente la soluzione.

Scrittura

Iniziamo a scrivere su ciò che vogliamo;
per arrivare al nocciolo di questo mondo;
o per romperlo;
per sublimare nell’immaginazione
e, eterno,
per fare emergere un universo dalle parole; la marea
lascerà dietro di noi ciottoli di sentimenti;
paure e sogni; (voglio dire, le increspature del sonno.
E le altre, fino all’indomani che incombe). Iniziamo
sempre lo stesso testo senza fine,
con un groviglio
di ritmi e di immagini. Sentiamo
che in realtà non vogliamo nulla – che
ciò che è scritto è un universo dal nulla. E che

questo testo senza fine
è la nostra destinazione.

Το γραπτό

Αρχίζοντας ένα γραπτό τι θέλουμε;
Να μπούμε στο κουκούτσι αυτού του κόσμου;
Ή να τον σπάσουμε;
Να εξαχνωθεί στη φαντασία
Και άφθαρτο
Ν’ αναδυθεί ένα σύμπαν από λέξεις; Η άμπωτη
Ν’ αφήσει πίσω της κροκάλες αισθημάτων;
Φόβους και όνειρα; (Τ’ απόνερα του ύπνου εννοώ.
Kαι τ’ άλλα, για το αύριο που βαραίνει). Αρχίζοντας
Πάντα το ίδιο ατέλειωτο γραπτό
Μ’ ένα ορμαθό
Από ρυθμούς και εικόνες. Νιώθοντας
Πως τίποτα δεν θέλουμε στ’ αλήθεια – πως
Ενα γραπτό είν’ ένα σύμπαν από τίποτα. Και πως

Αυτό το ατέλειωτο γραπτό
Είναι το γραφτό μας.

La colomba cieca e l’identità spezzata: la poesia qechua di Arguedas

Ho scoperto Arguedas più di dieci anni fa o, meglio, ho letto pochissime sue pagine, quelle iniziali del suo romanzo Fiumi profondi, per poi non terminare mai più la lettura per cause che non ricordo (credo di aver lasciato il libro a troppi chilometri di distanza). Eppure quelle poche pagine che raccontano l’arrivo del giovanissimo protagonista del libro insieme al padre in una Cuzco misteriosa e notturna, mi sono rimaste impresse per anni. Il ragazzo scopre le pietre e le mura incaiche, traccia di una civiltà distrutta di cui è un discendente e il viaggio diventa una scoperta di sé e della propria identità incerta. Bastò quella cinquantina di pagine ad affascinarmi e a farmi associare il nome di Cuzco alle impressioni del giovane Arguedas, ormai divenute anche le mie.
Recentemente ho scoperto le sue poesia in lingua qechua, da lui stesso tradotte in spagnolo e che ho tradotto in italiano, che sono percorse dallo stesso brivido che comunicavano le pagine iniziali di Rios profundos.

Canzone

Dove vai, colomba cieca,
dove vai, se è già notte?
Posa i piedi freddi sul mio petto.
Fai riposare le tue ali sul pulsare del mio cuore.
Bevi il mio sangue, colomba cieca,
bevi le mie lacrime,
il gelo dei tuoi piedi tornerà fuoco,
cesserà la tua stanchezza,
dolcemente e tranquilla volerai
per monti e per laghi, osservando tutto
i tuoi occhi ciechi nella mia mano
resteranno
i miei occhi saranno i tuoi
rimarrò nell’oscurità,
brancolerò, nel sentire la tua vita
più felice che nella luce.

 

¿Adonde vas, paloma ciega,
Adonde vas si es ya la noche?
Pon tus fríos pies en mi pecho.
Tus alas descansan sobre el latido del corazón.
Bebe mi sangre, paloma ciega
Bebe mis lágrimas
El hielo de tus pies se hará fuego,
Tu cansancio acabará
Volarás dulce, tranquila,
Por montes y lagos, mirando
Tus ojos ciegos en mi mano
Quedarán
Mis ojos llevarás en los tuyos
Yo quedaré a oscuras,
A tientas, siguiendo tu vida
Nunca mas feliz que en la luz.

Un Iraq picaresco tutto di fantasia

Boieldieu appartiene a quella schiera di professionisti dell’opera comica che vissero tra le due irraggiungibili (almeno secondo noi) vette di Mozart e Rossini. Le calife de Baghdad fu il suo primo trionfo parigino. Un’operina deliziosa,  ambientata in un Medio Oriente da favola con giovani califfi che si travestono da mendicanti e che si intrufolano in casa di ragazze da marito, che magari appena pochi mesi prima avevano salvato dai briganti. Le Mille e una Notte si fanno sentire e Le calife de Baghdad non è che un esempio di quelle “turcherie” che hanno dato capolavori come Il ratto dal Serraglio di Mozart e, in misura minore, lo stesso Flauto Magico, ambientato in un antico Egitto favoloso. In Italia, invece, basta ricordarsi di quel capolavoro dell’assurdo che è L’Italiana in Algeri di Rossini.

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Lo stile di Boildieu è brillante, pieno di melodie sciroppose, orchestrato con finezza tipicamente francese. Gli influssi italiani si fanno sentire qua e là, ma anche il gioco teatrale mozartiano non doveva essere ignoto al francese. L’uso dei piatti e degli strumenti a percussioni a quel tempo dava poi un tocco di esotico, anche in questo caso già sperimentato da Mozart nel Ratto.  Veramente bella la sinfonia che viene eseguita relativamente spesso.

Su youtube si trovano due edizioni integrali dell’operina (brevissima): la prima, più recente, è in francese e raccoglie solo le parti cantate e suonate. La seconda, della RAI, tradotta in italiano, ha sia le parti cantate che recitate (l’opera comica francese non ha recitativi ma alterna parlati e cantato, come in fondo succede nella Carmen). Anche se un po’ attempata e con una traduzione italiana non felicissima, la versione RAI è carina e rende bene l’idea di quel mondo di ingenua leggerezza e di irresistibile bisogno di azione caratteristico dell’opera comica.

versione francese: https://www.youtube.com/watch?v=Qy6ccqTupXc

versione italiana: https://www.youtube.com/watch?v=xhOPSM3aXOo